La nostra epoca (The Present Age, 1846) – Sören Kierkegaard

Trapped in a prism, in a prism of light
Alone in the darkness, darkness of white
We fell in love, alone on a stage
In the reflective age
Entre la nuit, la nuit et l’aurore.
Entre les royaumes, des vivants et des morts.
If this is heaven
I don’t know what it’s for
If I can’t find you there
I don’t care

La nostra è un’epoca essenzialmente ragionevole, riflessiva, senza passione, che avvampa fugacemente d’entusiasmo e sverna sagacemente in indolenza.

[…]

Dove lo trovi più un uomo il quale compia solo una volta una gran follia? Neanche un suicida oggidì la fa finita per disperazione, ma vaglia il passo così a lungo e così assennatamente da soffocar dal senno (per cui potremmo addirittura dubitare se merita davvero il nome di suicida, essendo stato soprattutto il vaglio a togliergli la vita). Non si trattò di un suicidio premeditato, quanto di un suicidio da premeditazione.

La nostra epoca è un testo di Kierkegaard del 1846. Sostanzialmente le epoche che vengono descritte e contrapposte dialetticamente sono due: l’epoca della rivoluzione (o l’epoca appassionata) e l’epoca della riflessione. Alle due epoche corrispondono appunto delle diverse attitudini psico – spirituali degli uomini che vi vivono. La prima – antecedente appunto al tempo in cui Kierkegaard scrive – è un epoca contrassegnata dalla passione, da un rapporto con se stessi produttivo e che si traduce in azione. La seconda, invece, è l’epoca in cui l’eccesso di riflessione finisce per smaterializzare ogni agire: l’azione non ha luogo ma si vagliano tutte le possibilità dell’agire finché il vaglio delle molteplici alternative vanifica ogni reale intervento; le varie supposizioni sui vari ed eventuali modi d’agire si traduce in dei simulacri, in dei riflessi di quello che dovrebbe essere l’evento reale. Così si preparano i vari proclami, i vari comunicati, si crea un attesa che non si concretizza in un nessun accadere. Nell’epoca della passione, l’individuo con la sua idea trova l’impulso ad agire e a questi, in seguito, si uniscono altri individui che nel proprio intimo hanno coltivato la stessa passione. Diversamente nell’epoca della riflessione, in cui esiste l’abilità della forma ma priva di contenuti, il singolo si dissolve nell’insignificanza del pubblico: entità astratta, quest’ultimo, che formula riflessioni anonime e livellanti. In tale contesto, l’individuo di carattere – che nell’epoca della rivoluzione veniva riconosciuto come eccellenza sia dai suoi sostenitori, sia dai suoi avversari – finisce per essere un rilievo che deve essere limato perché il livellamento si possa compiere.

Non importa quale sia il contenuto della voce che si distingue dal brusio del pubblico e passa all’azione: la si osserva, la si irride, ci si beffa del fatto che il singolo abbia deciso di agire; tutte le riflessione appunto nascono da un mero punto di osservazione e di supposizione non tradotto in nessun agire.

Azione e decisione sono oggigiorno rare quanto il gusto rischioso del nuoto in coloro che nuotano toccando.

[…]

Se il tesoro bramato da tutti giacesse in là su una lastra esilissima di ghiaccio, sotto la guardia dunque di un repentaglio tale da rendere l’uscita un azzardo mortale, […] in un’epoca appassionata la folla acclamerebbe giubilante il coraggioso che si azzardasse fuori, tremerebbe per lui e con lui nel frangente della decisione, lo piangerebbe se affondasse, lo idolatrerebbe se ottenesse il tesoro. In un’epoca riflessa e senza passione le cose andrebbero ben altrimenti. Riconoscendo vicendevolmente vicendevole prudenza, si converrebbe ragionevolmente tutti che non varrebbe no la pena spingersi così fuori, anzi sarebbe irragionevole e ridicolo; e poi si trasformerebbe l’avventura dell’entusiasmo in un esercizio di bravura tanto per fare qualcosa, ché qualcosa ‘’va pur fatto’’. Si andrebbe dunque là, da un punto sicuro di apprezzamento con aria da intenditori il talento di pattinatori, che sanno sfiorare il margine estremo (sin dove, ovvero, il ghiaccio è ancora sicuro e il pericolo non ancora iniziato) e poi curvare. Uno tra essi è particolarmente progredito, sa addirittura prendere giusto all’estremità del margine un ulteriore slancio ingannevolmente allarmante, sicché gli spettatori griderebbero: ‘’Santi numi, è pazzo, ci rimane!’’. Ma to’, era così eccellentemente progredito da saper curvare con tempismo perfetto all’estremità ultima del margine, ossia dove il ghiaccio è ancora totalmente sicuro e il pericolo mortale non ancora iniziato! Proprio come a teatro, la folla lo applaudirebbe e acclamerebbe, tornerebbe indietro stringendosi attorno al suo eroico artista e lo onorerebbe di un lauto banchetto. La ragionevolezza sarebbe prevalsa al punto da trasformare il compito stesso in un esercizio irreale e la realtà in un teatro.

Nell’epoca della riflessione si attiva una sorta di flusso di pensiero sterile che nell’incontro tra i soggetti riflettenti si traduce appunto in ‘’chiacchiera’’. Il pubblico con la sua voce anonima parla di tutto, o meglio , chiacchiera di tutto. Non esiste più quella separazione tra il raccogliersi intimo dell’individuo e il suo agire nel mondo. La riflessione interna dell’individuo passionale trova un ordine e sfocia nella decisione perentoria dell’agire (escludendo la moltitudine delle possibilità paralizzanti).

L’epoca della rivoluzione è essenzialmente appassionata; per questo non ha abolito il principio di contraddizione. Può divenire buona o cattiva, e qualunque via prenda, l’’impetus’ della passione è tale da segnarlo sempre, mentre la traccia dell’azione marcherà il progresso o lo scarto. Bisogna decidere; ma ciò a sua volta è la salvezza, in quanto ‘’decisione’’ è la parolina magica che l’esistenza rispetta. Quando invece l’individuo rifiuta di agire, l’esistenza non può soccorrerlo. Essere come quel re Agrippa a un pelo dal credere o dall’agire, è lo stato più estenuante che uno possa immaginare, se vi permane a lungo.

Inoltre l’individuo passionale che sa coltivare da sé la propria interiorità sa allo stesso modo tenerla distaccata dall’esterno, cosicché costui, seppur immerso nella moltitudine saprà adattarsi al discorso di circostanza senza confondersi con esso. Invece nell’epoca riflessa la riflessione interiore viene tutta proiettata all’esterno, non sapendo trovare un rapporto individuale con se se stessi, con l’idea, si sentirà il bisogno di sostituire al dialogo interiore un’infinita chiacchiera che su tutto insinua e suppone seppur non realizzando nulla.

Kierkegaard si sofferma ad analizzare molte altre caratteristiche e sfaccettature delle rispettive epoche che naturalmente non starò ad elencare. Tuttavia, vorrei riportare un esempio che al filosofo serve ad illustrare la differenza tra il decoro dell’epoca delle passioni e la rozzezza dell’epoca riflessiva. Mi preme riportare questo passo – seppur sono cosciente di deviare un po’ dalla direttiva del discorso dello specifico testo – per sottolineare come, nonostante io fatichi ad accettare l’esito finale del filosofia di Kierkegaard, le sue considerazione non possono essere tacciate di quel moralismo caratteristico del credente bigotto. Mi spiego meglio e sinteticamente. Sostanzialmente Kierkegaard è un filosofo che, come Nietzsche, predilige l’individuo: ne studia i suoi sommovimenti spirituali, le sue crisi e le sue angosce di fronte alle alternative esistenziali, la sua disperazione nella mancanza di possibilità. In La malattia mortale Il discorso di Kierkegaard è una puntigliosa descrizione della psicologia del cristiano e dell’uomo in generale, appunto perché il primo si differenzia dal secondo solo nell’esito finale della sua disperazione. Il soggetto, entrando in un profondo contatto con se stesso, fa l’esperienza della disperazione di un essere che si accorge di non essersi potuto porre da se stesso, di non essere il suo unico determinate. Da qui la disperazione di voler essere assolutamente se stesso (come esso stesso avrebbe voluto essere) o non voler essere assolutamente se stesso (non volere essere così come è stato posto). Non essendoci la possibilità – almeno secondo Kierkegaard – di autoporsi, il vero cristiano, che ha fatto l’esperienza della disperazione, si ritrova come individuo unico di fronte a Dio e in Dio trova la sua salvezza e la sua ultima possibilità. Sarebbe interessante continuare il discorso sulle considerazione del filosofo relative all’eterna dannazione del voler essere assolutamente se stessi o non voler essere assolutamente se stessi, sul bisogno ad esempio di mantenere – in una condizione esistenziale disperata a cui, da soli, non si può porre termine – una vitalità nel demoniaco, nel peccato e appunto nella ”reprobità” di fronte a Dio, pur di non dismettere il proprio orgoglio e cedere alla remissione dei peccati. Insomma tutte le conseguenze del non accettare di essere stati posti da qualcuno al di sopra di noi, seppur questo Dio tramato teologicamente, come dimostrerà magistralmente Nietzsche , saprà, ‘’facendosi uomo’’, suscitare la nostra pietà verso di lui, neutralizzando ogni nostro istinto vitale ed autodeterministico, ogni contrapposizione dialettica con Dio. In questa infinita disperazione, ormai, anche se fosse concessa all’individuo la possibilità di porsi come esso stesso avrebbe voluto, continuerà lo stesso a perseverare nella sua condizione dolorosa pur di non accettare una concessione.

Quello che mi preme sottolineare è che i vari passaggi che conducono all’esito finale della filosofia di Kierkegaard sono caratterizzati da una meticolosa indagine sulla psicologia del disperato. Dell’uomo che, distaccatosi dalla massa, fa esperienza della proprio tormento interiore e che, a prescindere se rimarrà peccatore o meno, si sarà comunque distinto, avrà preso coscienza della disperazione insita in ogni uomo. Disperazione che quando rimane latente produce – ritornando a La nostra epoca – l’insignificanza e la chiacchiera di quell’entità astratta che è il pubblico. Vengo dunque al passo che avevo scelto per dimostrare come nella prospettiva del filosofo ogni ardore – a prescindere che abbia come esito finale Dio o meno – è valutato positivamente. Quindi l’epoca rivoluzionaria, pur essendo l’epoca dei rivolgimenti, sa mantenere un suo decorum, una forma di rispetto per il sentimento autentico, inoltre, non rifugge in futili giustificazioni per motivare la sua mancanza di ardore.

Così, quando l’epoca rivoluzionaria tollera un legame con una donna sposata, malgrado questo falso concetto ha tuttavia un concetto di ‘’decorum’’. La liceità del legame, riflessa nella sua illiceità, si esprime perciò nel fatto che il ‘’decorum’’ esige segretezza. Tale segretezza testimonia a sua volta che il legame stesso, essenzialmente appassionato sotto il sigillo del silenzio, soddisfa i due. Elimina la passione, e sparisce pure il ‘’decorum’’: il legame non avrà probabilmente corso, ma se ne discorrerà. Anche se quindi l’epoca rivoluzionaria volle abolire la forma del matrimonio, non abolì il contenuto dell’innamoramento, e proprio perché così c’è una passione vera, rimane anche un ‘’decorum’’.

[…]

Chiunque ha fallacemente puntato a guadagnare ragionevolezza abnorme cedendo facoltà di volere e passione di agire, è perciò fortemente incline a puntellare l’insussistenza propria con svariate considerazioni preliminari che avanzano a tentoni, e diverse considerazioni postume che chiosano l’accaduto. […] Come il vecchietto mette una mano a sostegno del dorso e fa perno con l’altra su un bastone, così la ragionevolezza abnorme si sostiene con la riflessione chiosante – e perché? Precisamente perché non si è agito. Invece del bimbo divino della decisione tacita e laconica, la generazione partorisce un infante supposto dell’intelletto, che sa le sue cose a menadito.

 

RECOVERY POSITION

– Temo che non ci sia niente al mondo che mi interessi durevolmente. Tutto quello che si può osservare da un’auto in corsa, da un palco a teatro, da una finestra mi disgusta o è di scarso interesse, insomma mi annoia.

– Avete ragione, Contessa. Non c’è nulla al mondo che sia durevolmente interessante. Eccetto una cosa: giocare con gli uomini e con il loro destino.

Is it the shadow in my voice?
oh, I can barely form a sigh
is it the music that I make?
is it the sadness in my eyes?


Dr_Mabuse_due_immagini_femminili
you put me in position
as it tells you in the book
but I'm a separate chapter
you cannot look it up

Marlene-Dietrich-Shanghai-Express-2
my mother had a crying boy
hung up over the fire
I could not bear to see him
I would not meet his eye
I think that's why I'm like this
the tears they never cease
and yet you never see them
I keep them all in me
tumblr_njfjz8zwyK1rdfgw4o1_500I have broken into France
I have stolen into Spain
I've been thrown out of Italy
and I'll be thrown out again
the Dutch never liked me much
and Germany the same

gertrude-welcker_picture_Dr_Mabuse

I poisoned half the western world
but it never bought me fame


E’ l’ombra della mia voce?\ Oh, riesco a mala pena ad emettere un respiro\ E’ la musica che compongo?\ E’ la tristezza nei miei occhi?\\ Mi hai disposto nella posizione indicata nel libro\ ma io sono un capitolo a parte \ Tu non lo puoi consultare\\ Mia madre ha concepito un bambino che piangeva\ sospeso sopra il fuoco\ Non potevo sopportare la sua vista\ Non vorrei incontrare il suo sguardo\ Penso questo sia il motivo se sono così \ Le lacrime si versano incessantemente\ Eppure non è dato mai scorgerle\ Le trattengo tutte dentro di me\\ Ho invaso la Francia\ Ho rubato in Spagna\ Sono stato buttato fuori dall’Italia e sarò buttato fuori di nuovo\ gli olandesi non mi sono mai piaciuti molto\ lo stesso si dica per i tedeschi\ Ho avvelenato mezzo Occidente \ ma non mi ha mai arrecato fama.

THE WAITER… IL CAMERIERE – Storia di un’attesa e di un ricordo in cinque brani dei THE BLACK HEART PROCESSION

Non verremo alla meta ad uno ad uno,
ma a due a due. Se ci conosceremo
a due a due, noi ci conosceremo
tutti, noi ci ameremo tutti e i figli
un giorno rideranno
della leggenda nera dove un uomo
lacrima in solitudine.

(Paul Éluard)

Immagine presa da martinjohansson.org

Immagine ricavata da martinjohansson.org

Salve Signori,

oggi voglio presentarvi i The Black Heart Procession, un gruppo rock originario di San Diego, in California. Non voglio perdermi cercando di definirvi  il loro genere musicale, l’ascolto che vi proporrò saprà dirvi meglio di quanto possano fare le mie parole. Vi dico soltanto, per non avere delusioni quando farete partire il video con le canzoni, di dimenticare i gruppi da stadio gremito e anche la California solare e vacanziera.

I  cinque brani che ho scelto sono contenuti in quattro diversi album del gruppo, tuttavia ogni singolo pezzo è legato ad un’unica storia, ossia quella di The Waiter ( Il Cameriere) e della sua attesa.

Prima di andare avanti eccovi l’elenco delle canzoni e i rispettivi album in cui sono contenute:

– The WaiterThe Black Heart Procession, 1 (1998)

– The Waiter No. 2  e The Waiter No. 3The Black Heart Procession, 2 (1999)

– The Waiter No. 4The Black Heart Procession, Amore Del Tropico (2002)

– The Waiter No. 5The Black Heart Procession, The Spell (2006)

Prima di far partire la successione dei brani, possiamo chiudere gli occhi e immaginare di essere trasportati nei pressi di qualche sperduto luogo, ad esempio una piccola e remota città portuale in cui imperversa  un freddo inverno nordico. Poche navi approdano nel suo porto innevato e poche sono quelle che partono. Ora possiamo dirigerci lungo quello stretto sentiero che ci sembra di vedere: esso, allontanandosi dal porto, ci conduce verso una baracca dalla quale si irradia un fioco bagliore: il riflesso dei sinistri aloni di luce proiettati dal sole al tramonto o, più semplicemente,  una piccola lampada all’interno della casa stessa. Avvicinandoci ancora, sino ad arrivare alla finestra, possiamo scorgervi l’abitante della dimora: Il Cameriere. L’interno dell’abitato è povero: un piccolo tavolo con una sedia, un camino, una vecchia credenza, un giaciglio vicino al quale sta appeso un attaccapanni che serve a tenere in ordine una livrea: l’abito del Il Cameriere è vecchio ma conservato con dignità, forse in vista di un incontro. Infine, sempre accanto al letto, un comò e su di esso un carillon.

Fig. 1 – “I’ll be there yes I’ll be there/ Every night your eyes dream”

Ecco, proprio in questo momento Il Cameriere è uscito! Entriamo nella sua casa e proviamo ad aprire quel carillon. Appena abbiamo sollevato il coperchio della scatola, scorgiamo al suo interno – incastonata in uno specchio – una vecchia fotografia in bianco e nero di una donna…

… Poi l’ingranaggio del carillon inizia ad emettere qualche suono e a raccontarci con delle lente e tenebrose melodie la storia di un’attesa…

*

The Waiter

 (00:00 – 04:15)

In a cabin out where it’s cold
There’s a waiter serving time
He remembers she said
“I’ll be there yes I’ll be there
Someday when the snow  thaws”
So he stands watching the snow fall
In his hand a clock on a platter
He remembers she said
“I’ll be there yes I’ll be there
Every night your eyes dream”
“Dream dream my lonely one”

In lontananza udiamo abbaiare alcuni cani, segue una sorta di arpeggio di chitarra e carillon che continuerà sino alla fine della canzone, similmente a un ticchettìo di orologio oppure – secondo il percorso introverso della storia che sta per esserci narrata – all’ingranaggio di un cuore che, su pulsazioni fatte di attesa e memoria, sostiene l’esistenza di un uomo la cui vita, osservata esternamente, sembra ormai  solo un riflesso legato ad un sole che sta offrendo gli ultimi suoi raggi alle ombre della notte. Qualche voce umana, sempre in lontananza, dona un’ulteriore sfumatura sonora a questo paesaggio desolato… E finalmente più vicino a noi la prima declinazione della voce: un sussurro, un pensiero che sfugge e anticipa ciò che ci verrà detto nei versi successivi dalla seconda e più grave declinazione della voce.

Siamo immersi in un paesaggio invernale, in una baracca abita un cameriere o, più precisamente, è come se l’uomo fosse imprigionato in questa sua dimora.

L’uomo è schiavo di un tempo consumato nell’attesa di una donna; il ricordo lo estranea dalla sua ordinaria quotidianità  tuttavia, come vedremo soprattutto nei brani successivi, in lui è presente una coscienza lucida, uno sguardo volto a constatare la progressiva erosione della sua persona ad opera di un’attesa che forse si rivelerà vana.

A un dì sono legate le parole pronunciate da una donna e in quel tempo trova la sua genesi il sentimento di speranza connesso appunto ad un promessa: “I’ll be there yes I’ll be there/ Someday when the snow thaws”  (‘’Ci sarò, io sì che io ci sarò/ Un giorno quando la neve si sarà sciolta”). Su questa promessa si aggiunge una nuova declinazione del tono emotivo della voce: su quel ‘’… Yes i’ll be there/  Someday when the snow thaws”  una parte del cantato assume un’inflessione più disperata, più isterica, probabilmente nel tentativo di imitare la voce della donna che ha promesso. In quest’ultima attitudine vocale possiamo riscontrare uno dei sintomi della dispersione della persona del cameriere in quella dell’amata e del ricordo a lei associato. Allo stesso tempo, la commistione di toni emotivi, veicolati dalle tre modalità vocali, ci anticipa una confusione mentale che porterà Il Cameriere, forse, verso una decisione.

Mentre il brano prosegue, si distingue meglio il soffio della musical saw che si unisce all’arpeggio di chitarra e carillon.

Il Cameriere osserva la neve tenendo su un grande piatto un orologio: a cosa ‘’serve’’, per chi ‘’sarà servito’’ tutto questo tempo consumato nel ricordo? Quali saranno le conseguenze per chi, appunto come su di un vassoio,  porta tutto il peso di questo tempo? Un distillato di attimi che potrebbe non essere  consegnato a nessuno, soprattutto nell’eventualità di un non ritorno di colei cui spetterebbe interrompere questo asservimento all’attesa.

Nei successivi versi, “I’ll be there yes I’ll be there/ Every night your eyes dream”  (“Ci sarò, io sì che io ci sarò/ Sarò ogni notte il sogno nei tuoi occhi), la precedente promessa di ritornare quando la neve si sarebbe sciolta si rettifica – meglio sarebbe dire si interiorizza – in un ritorno nel sogno. Quindi con una quasi litania la canzone si chiude su quel “Dream dream my lonely one” (‘’Sogno mio unico sogno’’), verso che ripetuto due volte fa di quel dream della promessa qualcosa di fortemente interiore… La voce disperata intanto si dissolve  nelle voci lontane dell’inizio, il sinistro suono della  musical saw  sembra sostenere ed aiutare anche il dissolversi dei cigolii.

Figura 2 – “I’ll be there yes I’ll be there/ Someday when the snow thaws”

*

The Waiter No. 2

(04:18 – 08:18)

In the time of this winter the waiter had not much to say

He could hear the clock but he could not find his way

If I’m so far from your heart why do I feel it beat

And time won’t wait for us

Siamo  sempre immersi in un paesaggio invernale. All’inizio le percussioni sembrano tuoni distanti e ricolmi di neve; progressivamente si sostituisce un rumore di ‘’catene e singhiozzi’’ –  direbbe Flaubert  –  tipico di  quei paesaggi desolati in cui il vento scuote delle lamiere. Il Cameriere  è totalmente soggetto al proprio sentire interiore, non ha nulla da dire e nel silenzio, cadenzato dai ‘’battiti’’ dell’orologio, gli sembra di sentire la donna in dei rumori, in dei passi forse. Ogni vibrazione sembra voler testimoniare all’uomo la presenza della donna, quasi a volergli restituire ogni suo battito.

Prima che inizi il cantato, soffusamente si innalza un accordo tenuto d’organo che udiamo appena, quindi il pianoforte e per la prima volta la chitarra elettrica.

Dalla ritmica che assumono progressivamente le percussioni, possiamo immaginare che nell’intimo del cameriere si sia generato un impulso al moto, tale da portarlo fuori dal circondario della sua baracca. Allora, possiamo fingerci che quei cigolii di ‘’catene e singhiozzi’’ dell’inizio si siano trasformati nel rumore dei passi che conducono l’uomo verso il compimento del suo destino  – i presagi atmosferici del brano lo fanno intuire. Il pianoforte – per certi versi ulteriore calco sonoro dei  passi del cameriere – assume una ritmica più elaborata rispetto alle percussioni e su di esso continuerà a distendersi la chitarra; inoltre il suo ritmo sembra fornire un pizzico di vivacità cinetica al suono metallico delle percussioni – rimane comunque l’impressione generale di un trascinarsi. E’ sempre il pianoforte a donare al brano un’insinuante atmosfera sinistra che noteremo maggiormente in The Waither No. 4 : il  suono dello strumento sembra interferire a tratti con un’altra dimensione, creando un’attesa ansiosa che, tra gli intervalli ritmici, accoglie quei presagi provenienti dalla natura di cui avevamo intuito la presenza in qualche battuta precedente. Non meno sinistro è il vento gelido evocato dal suono della musical saw: esso sembra volersi innalzare e disperdere tutto, non senza prima averci avvisato minacciosamente della sua presenza.

Figura 3 – In the time of this winter the waiter had not much to say

Il Cameriere è in un certo senso cosciente che il tempo non aspetterà l’incontro con la donna da lui attesa; sicuramente non permarrà un tempo giovane al servizio del loro incontro. Il loro tempo sulla terra è solo un frammento – anzi due che potrebbero unirsi in uno – di quel tempo, forse eterno, che si ringiovanisce solo proiettandosi  su nuovi amanti. I frammenti di tempo donati a due creature sono una fugace elargizione da parte del tempo eterno che, indifferente al destino dei due amanti e ai suoi stessi frammenti elargiti, continuerà a scorrere a prescindere da ogni desiderio e speranza.

Anche in questo brano la narrazione è affidata alla voce nel suo doppio registro, tuttavia l’inflessione più grave ora appare più stanca, essa si intrattiene più volte sul penultimo verso,‘’If I’m so far from your heart why do I feel it beat’’,  per cercare appunto di sciogliere il dubbio su come  mai Il Cameriere, pur essendo lontano dal cuore dell’amata, ne sente il battito, senza tuttavia poterla raggiungere. La risposta non ci sarà o potrebbe essere quella dell’ultimo verso, ‘’And time won’t wait for us’’ : una constatazione, come accennavo sopra, dell’indifferenza del tempo verso il destino e i desideri del cameriere.

I rumori dissolvono il cigolio che ci ha accompagnati in quest’altro capitolo… Su di una sorta  di materializzazione sonora del tempo, che consuma le cose, si chiude anche questo secondo brano.

*

The Waiter No. 3

(08:19 – 15:29)

The Waiter No.3 è una ripresa-ripetizione di The Waiter No. 2, anche se qui alcuni cigolii – quelli che avevamo immaginato essere i passi dell’uomo sulla neve – sembrano scomparsi o, per lo meno, attutiti; continua invece il cigolio di sottofondo.

Possiamo concederci questo brano per chiudere nuovamente gli occhi e riflettere sulla condizione del Il Cameriere o, più in generale, su ciò che finora questa storia ha evocato nel nostro intimo. Una riflessione sulla distanza che fa nascere la nostalgia e che, anche per questo, ci spinge verso il voler appagare un desiderio, un sogno impossibile. Il sogno di un uomo che, non potendo ricevere amore, non sa farsene una ragione ma una tristezza.

Pensiamo a quel desiderio di amare, a quell’impulso che ci spinge all’amore e pensiamolo legato ad una persona che è distante dalla nostra vita. Un’anima alla quale il nostro cuore, ribellandosi ad ogni razionalità, vuole rimanere fedele.

Magari Il Cameriere resterà per sempre legato all’immagine della donna – forse quella della fotografia che prima avevamo scorto nel carillon: essa, impressa nella sua mente e davanti agli occhi del suo sogno, non invecchierà mai.

Il tempo andrà avanti in modo inesorabile, esso non permetterà di recuperare quel sentimento non vissuto, quell’amore allontanatosi prima di essere consumato…  Il gelo della realtà … e…

Nel mio sogno si libra il mio amore , è nel mio sogno che posso averti accanto , parlarti… ma ai miei occhi sei distante e se per farmi amare devo chiuderli vorrei allora chiuderli per sempre…(Re)

… Ma ora, mettendo fine alle nostre libere associazioni, riprendiamo ad ascoltare con più attenzione la storia che il nostro carillon, con i suoi ingranaggi in fila come una ‘’processione di cuori neri’’, vuole raccontarci sino alla fine…

*

The Waiter No. 4

(15:31- 19:16)

This is you and this is me
No one understands
What is this i’ve become
As memory fades
You left me years ago
Where the sky and the snow turn red
This is you and this is me
No one understands
This is why i’ve waited
To retrace a certain voice
Summer’s winter’s cure
Somewhere through the years
I replaced a certain pain
And summer’s winter’s cure
Yet I remain

 

Il ticchettìo si fa più nervoso, il pianoforte maggiormente nitido e con più note acute rispetto a The Waiter No. 2. Al primo strumento si unisce il lieve gioco contrappuntistico della chitarra acustica. Il violino invece esegue dei glissati stonati come fossero coltellate di lamenti. Sembra di udire a un certo punto  delle foglie spazzate via, tuttavia potrebbe trattarsi anche della risacca.

Il Cameriere si ripiega sempre di più su se stesso, riflettendo sulle conseguenze della sua attesa. Qualcosa di pungente si fa sentire nella sua testa, i ticchettìi risuonano come tarli vivi nella mente. L’uomo è cosciente della sua condizione esistenziale ma, allo stesso tempo, sa che nessuno potrebbe definire il suo sentire interiore. ‘’This is you and this is me/ No one understands’’ sono i primi versi pronunciati dalla voce che continuerà nella sua doppia declinazione, avendo acquistato in entrambi i registri una maggiore fermezza.

Il Cameriere sembra aver confuso la sua essenza con quella della donna, nonostante – non sappiamo per quali motivi – lei ancora non sia tornata a sancire l’unione d’amore tanto attesa dall’uomo. Egli, nel suo attendere, l’ha quasi incorporata in se stesso, facendo prendere al suo essere  un’indefinitezza simile al ricordo. Il Cameriere, eccetto che per prendere coscienza della sofferenza dell’abbandono, è stato continuamente sradicato ed alienato dal presente. Una corrente di associazioni mentali, raccolte tra i rimasugli della sua vita solitaria, lo ha riportato costantemente all’atmosfera dell’abbandono: forse un tramonto intarsiato di un calore piacevole, come quello emanato dalla vicinanza della donna nel giorno della sua partenza; sullo sfondo linee di terra rivestite di neve che, accendendosi sotto gli ultimi raggi del crepuscolo, sembrano confondere cielo e terra in un solo colore. Argini luminosi  che stringono  con le loro insenature la distesa azzurra  nei pressi di un porto, come a voler accogliere  in un abbraccio il ritorno delle  navi; frangenti luminescenti che delicatamente si dissolvono, come se volessero seguire sino all’ultimo orizzonte le schiumose chiome, allorché il mare,  distendendosi al largo, porta di nuovo lontano le navi. Ecco, potrebbe essere quello che mi sono appena immaginato lo scenario dell’abbandono; infatti Il Cameriere ricorda di essere stato lasciato solo anni fa, in un imprecisato luogo dove il cielo e la neve diventano rossi (‘’You left me years ago/ Where the sky and the snow turn red’’). Allora immaginiamoci l’uomo e la donna, al tramonto, proprio nei pressi degli argini luminosi ricoperti di quella neve che di li a poco, facendosi sera e poi notte, sarebbe diventata più gelida, di conseguenza più lungo il tempo del suo sciogliersi rispetto a quanto aveva fatto sperare il tepore del tramonto.

Il violino, a cui è  affidato il pianto, sembra voler seguire in un guizzo lamentevole – lo si nota particolarmente sugli ultimi versi citati – ciò che inesorabilmente è destinato a sfumare e a consumarsi insieme all’uomo che detiene la memoria. Infatti, dalla memoria e dall’immaginazione del cameriere, abbandonato nel corso delle stagioni a se stesso, sono sorte quelle ombre che, come larve di luce, hanno teso alla vita e all’amore; tutto ciò inutilmente, visto che ogni speranza sembra essere stata  ripiegata dalla bufera in quel grembo di tenebre che è la solitudine.

Figura 4 – ‘’You left me years ago/ Where the sky and the snow turn red’’

Figura 4 – ‘’You left me years ago/ Where the sky and the snow turn red’’

Il Cameriere si chiede a cosa sia servita la sua attesa. Negli anni ha ripercorso nella sua mente il suono di una ‘’certa voce’’; probabilmente durante questa lungo attendere si è ridetto la promessa della donna (“I’ll be there yes I’ll be there/ Someday when the snow  thaws”). La sua è stata come una cura di inutile speranza…Dei tramonti successivi di una speme coltivata nel trascorrere delle stagioni. E’ stato un lento perdersi: ogni speranza, vanificata nel succedersi degli anni, si è trasformata in una particolare forma di dolore, portando alla frantumazione delle diverse possibilità di vivere. Il Cameriere, probabilmente, per anni si è immaginato di fare delle cose, ha accennato a fare delle cose, tuttavia ha concepito la piena realizzazione del suo vivere solo insieme all’amata. Egli ha rinunciato ad ogni sua esperienza, rimandato ogni sapore, trattenuto ogni suo pieno sentire nell’attesa di poterlo condividere con la donna. Ormai – con lei o senza di lei –  non gli rimane che rimanere: ‘’Somewhere through the years/ I replaced a certain pain and summer’s winter’s cure/ Yet I remain’’.

Il tickettio si impone su tutto e  la canzone si chiude con l’effetto di un nastro che si riavvolge su se stesso.

*

The Waiter No. 5

(19:17- 23:21)

I have waited all these years here in the snow
I have waited for a spring that never came
I feel the wind blow cold in my bones
I was burried here out in the snow
I have waited for a spring that never came
Remember I try to remember
I have waited all these years beneath the snow
Now i finally know it was you who burried me
I have waited for a spring that never came
You won’t be coming back this is my home
This my grave

Siamo all’epilogo. Un soffio di bufera risonante come da uno spazio cosmico, delle percussioni funeree e un pianoforte gocciolante aprono il brano. Si aggiunge la chitarra elettrica quasi a voler sottolineare quest’atmosfera solennemente mesta. Nel prosieguo della canzone il pianoforte si fa più struggente: ormai il suo compito non è più quello di captare una presenza, bensì quello di scolpire una definitiva assenza.

Il Cameriere si è reso conto di avere atteso molti anni nella neve, senza aver visto schiudersi la primavera. La voce nel constatare la sua condizione si fa più risoluta; allo stesso tempo si ha l’impressione che dall’oltretomba del ricordo, su di un lieve effetto d’eco, tutte le voci che hanno scandito la solitudine dell’uomo, si siano incamminate per raggiungere per l’ultima volta, forse, Il Cameriere e accompagnarlo come in un corteo negli ultimi suoi passi.

Il Cameriere sente nelle ossa il freddo dei luoghi – sempre gli stessi e ricoperti di neve – che ha abitato. La consapevolezza della sua vana attesa si fa sempre più accentuata. Anni trascorsi a ritorcere il tempo presente nella direzione del ricordo. Ed anche adesso Il Cameriere ricorda… Cerca di ricordare. Probabilmente l’uomo ha anche cercato di stancarsi del ricordo; egli ha tentato di frantumare la propria memoria sezionandola nelle sue molteplici sfumature, sebbene essa abbia avuto un unico punto di confluenza e di irradiazione: l’amata e la sua promessa. Tuttavia, l’uomo si rende conto di essere stato lui, non il ricordo, ad essere sepolto da colei che sarebbe dovuta arrivare insieme alla primavera. Su quel ‘’Remember I try to remember’’  il violino, somigliante nel timbro ad un oboe, trasforma in melodia il giro ritmico su cui si è sostenuto lo struggimento del pianoforte e la canzone tutta.

Non sappiamo in realtà se Il Cameriere sia riuscito a muovere molti passi; forse, dopo un breve tragitto, egli è caduto su quella neve che non si è sciolta, così come lui non è riuscito a sciogliersi dalla promessa dell’amata.

Il Cameriere immagina di rivolgersi ancora una volta alla donna alla donna – ma forse anche alla primavera – per comunicarle che ormai lui non attenderà più il suo ritorno:  ‘’I have waited for a spring that never came/ You won’t be coming back this is my home this/ This my grave’’ (‘’Ho atteso una primavera che non è mai arrivata/ Non ritornerai, questa è la mia casa/ Questa è la mia tomba).

Fig. 5 – ‘’I have waited for a spring that never come/ You won’t be coming back this is my home/ This my grave’’

Continua a soffiare il vento… Sul finire del brano, è forse un respiro quello che si confonde con la tempesta: un ultimo soffio di vita a cui si aggrappa l’anima, un sospiro  che cerca di riassorbire le lacrime prima che esse si congelino e non scendano più. Udiamo anche un lieve gracchiare già avvertito in precedenza: potrebbero essere le mani del cameriere che accarezzano la neve oppure, come in una eco, il rumore dei suoi passi ancora risuonanti dall’altro brano. In quest’ultimo gracchiare potremmo avvertire, allo stesso tempo, l’agonia del ticchettìo di quel orologio portato su di un piatto: anch’esso ora incepperà nella neve fino a pietrificarsi insieme al battito di un cuore.

Fine

Renzo Demasi

Elenco Immagini:
Fig. 1 – Copertina dell’album I dei The Black Heart Procession
Fig. 2 -Caspar David Friedrick, Paesaggio Invernale, immagine ricavata da settemuse.it
Fig. 3 – Alfred Sisley, Mooring Lines The Effect of Snow at Saint Cloud
Fig. 4 – Caspar David Friedrick, Kunstenlandschaft im Abendlicht, immagine ricavata da arteposter.it
Fig. 5 – Caspar David Friedrich, Cimitero dell’abbazia sotto la neve, immagine ricavata da http://montaigne.altervista.org/wp-content/uploads/2015/05/Friedrich-Cimitero-dellabbazia-sotto-la-neve.jpg

Novembre. Frammenti di stile qualsiasi (fr. Novembre. Fragments d’un style quelconque) – Gustave Flaubert, Francia 1842

Novembre - Flubert

Amo l’autunno, triste stagione che si addice ai ricordi. Quando gli alberi non hanno più foglie, quando il cielo conserva ancora, nel crepuscolo la tinta rossastra che indora l’erba appassita, è dolce vedere spegnersi tutto ciò che fino a poco tempo prima ancora ardeva in noi.

Ho iniziato il romanzo di Flaubert alla fine del mese di novembre e l’ho terminato nei primi giorni del mese successivo. Poco prima di immergermi nella lettura, avevo visto sulla rete un articolo che riportava l’elenco di alcuni giardini della città in cui vivo: ivi ci si poteva recare ad osservare le foglie che si abbandonano al suolo in autunno inoltrato. Così ho pensato al rossiccio delle foglie autunnali, una tonalità simile a quella di certi raggi che al crepuscolo si proiettano sui mattoni delle case che scorgo dalla mia finestra. Un rossiccio che sembra conservare in un’essenza diafana il calore nascente della primavera e quello ormai consumato dell’estate. Una sorta di raccoglimento in uno sbiadito ricordo, ancora illuminato dal calore intimo che ci restituisce lo sguardo malinconico e distaccato sulla passione del passato; un ritorno pacato sulla memoria delle passioni in una stagione in cui il sole non brucia più.

Avevo pensato di recarmi in uno di quei giardini autunnali e scattare delle foto alle loro foglie. Fossi stato un pittore forse avrei preferito dipingere per dare qualcosa più di mio al fogliame: un desiderio di sottrarlo alla morte e rendere meno ‘’marcio’’ il suo morire; una volontà di differenziare il mio sguardo da un’ordinaria fotografia documentaristica o dalla falsa patina d’autunno di una foto da rivista di ‘’fotografia pittorica’’. Probabilmente anche la casualità dello scatto fotografico – o la pronta risposta e la corrispondenza dello scatto ai miei moti interiori, trasformati in tracce d’autunno sparse sul terreno – avrebbe potuto restituire, in una cornice fotografica, allo stesso tempo il mio paesaggio interiore e quello esterno delle foglie. Tuttavia, nonostante le mie passeggiate, non mi sono recato in nessuno di quei giardini che si spogliavano dalle foglie per essere avvolti dalle braccia di un amante rigido come l’inverno; dunque non ho scattato nessuna fotografia. Ho trovato invece nel romanzo di Flaubert tutte le sensazioni e tutte le condensazioni mnemoniche che ci rubano il pensiero nel mese di novembre

Leggendo l’opera dello scrittore francese ho assaggiato, a partire dall’autunno, il sapore di tutte le stagioni. Nel ricrearmi e nel rivivere tutte le sensazioni descritte mi verrebbe la voglia di ritrascrivere in citazioni quasi tutto il romanzo. Del resto anche il fare un’analisi dell’opera in ogni sua parte sarebbe come restituire una foto al microscopio del testo, e vedere le cose più vicino del vicino spesso ci priva di ogni poeticità. Così l’analisi non diventerebbe altro che la traduzione in prosa della parola poetica a cui – soprattutto nella prima parte del testo – Flaubert affida la descrizione in prima persona degli stati d’animo del protagonista.

Appunto la prima parte del romanzo si costituisce sulla liricità di un sentimento che non ha potuto esprimersi nella realtà, infatti prima di avere un accenno di storia ‘’trascorrono’’ molte pagine di pure sensazioni interiori. Ci viene proposta una descrizione quasi diaristica degli stati d’animo di un adolescente. La registrazione poetica dei suoi moti interiori che quasi diventano massime generali – togliendo la categoricità delle massime, infatti alcune frasi del romanzo si prestano ad essere discusse e interpretate come l’ambiguità della parola poetica – sui diversi stati d’animo legati all’esistenza. A tratti mi è parso di rileggere alcuni passi del romanzo Gertrud – ma in modo dilatato – in cui Hesse fa un resoconto sulla vita attraverso una contemplazione distaccata che ingloba dolori e gioie. In Flaubert questi sguardi più poetici e distaccati sulle sensazioni della vita sono subito accompagnati da discese nell’abisso, da sguardi e ansie anticipatori sulla caduta futura nel baratro; ad esempio una sensazione di vecchiaia avvertita sin dalla prima giovinezza. Si susseguono momenti di esaltazione per la vita – che confondono la mente in una felicità incontenibile, infatti si tratta di un sentire che non si può metabolizzare in un’esperienza vissuta o condivisa – trasformate dopo non molte righe nell’immagine speculare della morte. Quest’ultima nella sua attrazione fatta di immagini macabre e spettacoli di distruzione, ma anche nella declinazione di un post-mortem senza la cessazione della coscienza, soprattutto di quella che progressivamente attraverso l’arrendersi, il rilassarsi, il dissolversi, si distacca dal suo desiderio per non esistere più, piuttosto che continuare a vivere in una contemplazione della vita scevra dal dolore di appartenere ad un corpo.
Nel romanzo ho ritrovato quel giardino d’autunno che non ho visitato. Infatti il protagonista, dopo aver sentito le fitte del desiderio non appagato, dopo aver contemplato nella rabbia immagini terrificanti di morte, arriva a desiderare una condizione di maggiore orizzontalità: un lasciarsi andare su di un letto di foglie; insomma avere coscienza di non essere più vivo ma in una maniera non asfissiante come la condizione dell’essere sigillati in una bara.

Ma non avrei voluto essere seppellito, la bara mi spaventa; preferirei essere deposto su un letto di foglie secche, in mezzo al bosco e che il mio corpo se ne andasse, a poco a poco, nel becco degli uccelli e con la pioggia delle tempeste.

Gustave Coubert, L’homme blessé (1844-1854)

Gustave Coubert, L’homme blessé (1844-1854)

Molti dei personaggi dei romanzi in cui mi ritrovo amano mettere in movimento il loro corpo per dissolvere pensieri rimbalzanti su se stessi, per far scorrere lungo strade e sentieri sensazioni intense, sia di felicità, sia di malinconia. Il muoversi è natura, pensiero che non si accontenta di mere connessioni e immagini neuronali, che vuole cercare nella realtà la sua occasione; inoltre sempre a partire dalla natura, tornare a dissolversi nuovamente in estasi. Mi ritorna in mente ancora qualche personaggio hermanessiano, il quale scala montagne fingendosi di compiere un’impresa in onore della fanciulla che sogna di amare. Ancora mi sovviene la frenesia di taluni personaggi dostoevskiani che, dopo aver fatto la propria comparsa nelle disavventure di qualche esistenza, corrono con passo celere per le strade di una fredda San Pietroburgo a soccorrere tutta la bellezza del proprio sentimento incarnatosi in qualche creatura (Delitto e castigo, L’idiota, ecc.); ancora qualche altro personaggio creato da Dostoevskij che lascia sognante la sua camera, continuando il suo sogno sino ad un ponte in cui scorge una ragazza in lacrime (Le notti bianche); e ancora qualche altro personaggio dello stesso scrittore russo in preda ad un pensiero ossessivo e masochistico, che a volte decide di abbandonare la sua tana (Memorie dal sottosuolo). Ci sarebbero ancora i vagabondi di Kerouac e i loro ancora underground flussi di vita; personaggi che non sempre prediliggono corse in auto e orge; allora divengono Beats\Beat che accordano l’ascensione del loro vitalismo a una scalata, a una discesa, ad una permanenza su di una vetta (I vagabondi del Dharma, Angeli di desolazione).

In Novembre vi sono delle passeggiate significative nella prima parte, nell’ultima la noia non troverà nella motilità più la sua via di fuga, se non alla fine del romanzo in un viaggio e in un’ultima passeggiata in quelli che sono stati i luoghi della giovinezza.

Il moto scaturisce da un’anima ‘’in preda’’ a delle sensazioni, a delle ‘’quasi visioni’’; il corpo entra in fermento, ci si muove perché si vorrebbe offrire realmente ai propri occhi l’immaginario della mente. Allora si inizia a correre, a passeggiare finché la natura reale, amplificata dal sentimento, frena la sofferenza del desiderio – che vorrebbe esplodere in modo incontrollato – elevandolo in un’estasi purificata dall’oggetto unico del desiderare: una sorta di trasporto panico.
La prima passeggiata porta il protagonista nel villaggio X in un percorso che è una progressione psichica ascendente, una sinfonia strutturata sugli stati d’animo armonizzati con gli elementi della natura. Tale sentire trova la sua perfetta orchestrazione nel motivo della condensazione tra soggetto e natura. Il ragazzo da un’altura assorbe e respira anticipatamente lo scintillio e il profumo del mare che si trova sotto l’altopiano. Successivamente muove il suo corpo lungo il pendio che porta al mare. Alla discesa fisica fa da contrappunto la progressiva ascesa verso l’estasi, verso quella sensazione in cui quasi percepiamo la nostra anima spingere sulle pareti del nostro petto. Un’unione (dissoluzione in) di ciò che è la nostra fisicità con quella più maestosa ed eterea della natura, un rapporto religioso con gli elementi naturali contrapposto agli strappi del desiderio che esige di essere appagato; quest’ultima variazione del sentire è propria del momento in cui i sentimenti più teneri, più sublimati si trasformano in natura pulsionale-sessuale.

Come dicevamo sopra, il protagonista oscilla dall’inizio alla fine tra i diversi estremi degli stati d’animo: dall’esaltazione alla tristezza e alla noia; queste ultime declinate sia negli sbocchi immaginativi dell’adolescenza (nella prima parte), sia in un pensiero cinico che ha visto fallire – senza neanche tentare di realizzarlo – ogni slancio vitale, rimasto appunto solo a livello di desiderio interiore e poi dissoltosi nella noia (nell’ultima parte). Così anche il sentimento amoroso viene descritto nelle sue diversità connesse all’età:

La pubertà del cuore precede quella del corpo; allora avevo più bisogno di amare che di godere, più voglia dell’amore che del piacere. Adesso non ho più nemmeno l’idea di quell’amore della prima adolescenza, in cui i sensi non sono nulla e l’infinito, solamente, ci può riempire; posto tra l’infanzia e la giovinezza, segna il passaggio dall’una all’altra e passa così velocemente che lo si dimentica.

Dopo l’estasi quasi religiosa scandita dal rumore dell’oceano che si alza dall’orizzonte, il ragazzo si incammina sul precedente percorso in una sorta di riproposizione mentale delle sensazioni dell’andata; similmente a certi momenti della nostra vita contrassegnati dal rivivere nel ricordo un altro momento della nostra esistenza. Questo nuovo percorso lo conduce in un giardino; tuttavia, ora il sentimento della natura non si stacca dal proprio essere carnale che desidera invece una soddisfazione fisiologica.

Fu allora che sentì distintamente il demone della carne vivere in ogni muscolo del mio corpo, correre nel mio sangue; commiserai il tempo ingenuo, quando tremavo sotto lo sguardo delle donne, andavo in visibilio davanti ai quadri e alle statue; volevo vivere, gioire, amare, sentire vagamente che la mia stagione calda stava arrivando, come nei primi giorni di sole, quando la calura estiva arriva portata dai venti tiepidi, benché non ci siano ancora né erba, né foglie, né rose.

Dopo questo nuovo contatto con la natura segue l’immersione nel centro abitato in cui il giovane cerca di catturare le sensazioni emanate da ogni donna incrociata: un desiderio di inebriarsi di carnalità. Questa passeggiata, probabilmente costituita da incroci (o tentativi di incroci) di sguardi, mi riporta alla mente un altro grande romanzo francese: La pelle di zigrino di Balzac. E ancora un’altra passeggiata; nel caso di Balzac faccio riferimento al protagonista che dopo essersi deciso per il suicidio, incrociando una ragazza per strada decide (contrariamente probabilmente al protagonista di Flaubert) di non guardarla, in modo che costei, rientrata a casa – a prescindere dagli occhi che si sono posati su di lei – non possa avere la vanità e l’orgoglio di aver ricevuto uno sguardo per la sua bellezza – fine Balzac nel decidere di mettere in letteratura uno di quei pensieri appena descritti che spesso ci sfiorano la testa.

Questa nuova esaltazione conduce il ragazzo ad introdursi nella casa di Marie la quale, all’inizio, ci viene presentata come distratta dai sui pensieri in seguito all’improvvisa entrata del giovane. A parte lo sguardo palpitante del ragazzo sulla donna, questa visione di Marie potrebbe essere simmetrica e anticipatoria dello stato mentale futuro del protagonista maschile. Tuttavia, i tragitti esistenziali delle due figure sono differenti. Marie è colei che come il protagonista adolescente si è risvegliata alla vita con ardente desiderio. La donna, dopo questo risveglio, ha lasciato il suo villaggio cercando in tutti i modi di dare sfogo alla sua passionalità, non rinunciando a nessun oggetto e persona del desiderio. Invece il ragazzo – dopo l’incontro con Marie – non appagherà né ambizioni, né desideri. Entrambi, secondo percorsi esistenziali diversi, danno origine al proprio degrado – da un lato l’oppio e la noia di lui, dall’altro la ricerca sfrenata nell’amore carnale di quella passione sognata precocemente da lei. Entrambi – come vuole l’idealizzazione romanzesca – vittime di dolori esistenziali che consumano le loro vite (rispettivamente nell’oppio e nella prostituzione) ma senza che alcun organo ne risenta.

Prima di andare avanti vorrei soffermarmi un po’ sul significato del rimanere legati ad un immaginario, che sia esso più o meno adolescenziale.

Nel sentimento adolescenziale abbiamo sottolineato come prima ‘’pulsione’’ una sorta di piacevole malinconia, ma anche una nostalgia (anche se il termine nostalgia è in contrasto con l’età giovane che ancora non conosce il ‘’dolore del ritorno’’: allora, in questo caso, potremmo parlare di ”nostalgia anticipatoria”); ben presto tuttavia inizia anche a generarsi la voglia di distruzione, il nichilismo che non si accontenta della scappatoia nella fantasticheria. La prospettiva della donna adulta e capace di consumare passione carnale non ci consente l’idealizzazione spirituale del ricordo. Il fuoco della passione (vissuta o immaginata) brucia quella sorta d’immagine idealizzata che la nostra memoria vorrebbe consacrare come immaginario casto. Mi viene in mente un’analogia con alcune vecchie pellicole cinematografiche facilmente incendiabili: il materiale di cui esse erano costituite poteva infiammarsi anche all’interno del proiettore – durante la riproduzione del film – con il risultato, per lo spettatore, di assistere a una sorta di buco sul telone, come se la realtà meccanica bruciasse la finzione. Così, per quanto riguarda il nostro argomento, possiamo fare riferimento ad una sorta di meccanica del desiderio che non si accontenta della fantasia (l’analogo della narrazione che lo spettatore vede ‘’bruciare’’ sul telone); quindi quell’immagine, anche se non bruciata, viene profanata da un ardore passionale che non conosce più la poesia tenera, ma solamente una passione ‘’violenta’’ che ha necessità di riversare vita, prima di finire nella rigidità della tomba.

Nell’età adulta non si rimane legati poeticamente solo alla fanciulla pura della preadolescenza. Altrettanto poetico può essere lo struggimento per una passione carnale non consumata (cosa che non avverrà nel romanzo, come vedremo almeno una volta nella vita sarà bruciata pura passione). Essersi avvicinati all’ebbrezza di avere una donna accanto, avere intrecciato le sue dita alle nostre nella luce soffusa, tuttavia non aver fatto l’esperienza dello sciogliersi di quel nodo di mani nel fuoco penetrante della passione, può determinare un ‘’eterno’’ attaccamento a un sentimento misto di passione, generare un cuore affamato di amore e desiderio carnale. Un’insaziabilità inappagabile perché legata ad un fantasma del passato, ad una sorta di itinerario temporale e fisico che si cerca di ripercorre nella realtà come un assassino nella notte, quasi a volersi innalzare fino al piano in cui abita il nostro fantasma e, come nel citato romanzo di Balzac, nascondersi dentro un armadio per sapere come vive la donna del nostro desiderio inappagato. Di seguito due citazioni dal romanzo riguardanti questo attaccamento ad un immaginario appartenente ad una passato, forse immaginato.

La prima:

Per quanto si cerchi di seminare nuove passioni sopra quelle vecchie, queste ricompaiono sempre; non c’è forza nel mondo che possa sradicarle.

La seconda:

Quello di cui sono alla ricerca quasi tutti gli uomini forse non è altro che il ricordo di un amore immaginato in cielo o nei primi giorni di vita; siamo alla ricerca di tutto ciò che vi si lega; la seconda donna che si ama assomiglia quasi sempre alla prima: serve un buon grado di corruzione o un cuore ben grande per amare tutto.

Siamo coscienti che tali fantasie nascono da un immaginario ricco e che la realtà – ritornando all’ipotesi di una passione non consumata che avevamo formulato sopra –, anche ipotizzando un possibile appagamento del desiderio, sarebbe stata certamente molto più prosaica e insoddisfacente di quella immaginata – almeno con l’indole della donna che non ha soddisfatto il nostro desiderio ma sulla quale abbiamo riversato in tutta la sua potenza il nostro immaginario. Infatti, salvo blocchi insormontabili di natura personale e fisica, non esiste donna passionale (e neanche uomo passionale) che incontrandosi con un’anima affine sprechi nel ritrarsi la potenzialità di un fuoco vitale. Il nostro protagonista invece consuma e condivide almeno una sua unica ‘’occasione’’ – teniamo conto che nei romanzi è più facile che un giovane ‘’straordinario’’ incontri una donna ‘’straordinaria’’ e viceversa.

Continuiamo ad analizzare le indoli dei due protagonisti, le conseguenze del loro incontro, l’alchimia di due forti ‘’sentire’’.

Merita una certa attenzione la descrizione del tipo di femminilità di cui si fa portatrice Marie e di conseguenza il confronto con la personalità del ragazzo. Se ne potrebbe fare un discorso estremamente articolato fino a coinvolgere l’intero immaginario ottocentesco sulla donna, soprattutto quello più scabroso collegato a quella sorta di ‘’continente oscuro’’ della sessualità femminile. Inoltre si potrebbe anche descrivere la sessualità precoce di Marie – a partire già dall’età di dieci anni – come una proiezione del desiderio del protagonista maschile e in senso lato dell’autore. Al di là di tutto ciò ci piace mettere in evidenza, anche per quanto riguarda Marie, quel particolare legare le proprie sensazioni alla natura. Marie, a differenza di certi momenti del protagonista, durante l’esistenza trascorsa nel villaggio di contadini, non ha propriamente dei sentimenti caratteristici di una sublimazione mistica del sentire. Costei mantiene una violenza passionale quasi sempre costante; nel ragazzo quando il sentire passa nella fase disforica si genera l’attrazione per il funereo, una pulsione di morte più esplicita, poi certo anche in lui nasce una violenza fatta di desiderio di distruzione. In Marie il sentimento passionale poggia quasi sempre su di una natura organica, anche se il suo smacco esistenziale sarà quello di non trovare mai una soddisfazione a questo suo immaginario passionale smisurato (proprio delle nature forti, non miti). La ragazza, anche nel momento di sconforto causato dall’abbandono da parte del ragazzo di cui si era innamorata, non riesce a rendere del tutto casto il suo sentimento, né a rivestirlo di quell’idealizzazione – a volte ipocrita con la quale si inganna se stessi – che sublima il primo amore in una sorta di angolo, anche se non casto, scevro e disdegnevole delle pulsioni puramente fisiologiche. Non faccio assolutamente una scissione tra un sentire carnale ed un sentimento più casto e spirituale, perché sono convinto che la passionalità appartenga solamente a certe nature in cui il calore che brucia nel corpo e nell’anima è un tutt’uno (naturalmente, come il protagonista, distinguo il sentimento tenero della preadolescenza – nel racconto del passato di Marie meno messo a fuoco). Mi sembra significativo riportare alcune righe che sintetizzano la condizione della fanciulla nel particolare momento sopra citato:

Da allora mi allontanai da tutto e non uscii più dalla fattoria; facevo vita solitaria, immersa nei miei desideri, come altri nei loro piaceri. Se si diceva che un tale aveva rapito una fanciulla che gli veniva negata, immaginavo di essere la sua amante, di fuggire con lui in groppa a un cavallo, attraverso i campi, circondandolo con le mie braccia; se si parlava di un matrimonio, svelta mi coricavo nel letto candido e come la sposa tremavo di paura e di voluttà; invidiavo perfino il muggire lamentoso delle vacche al momento del parto; sognando la causa di tutto ciò invidiavo anche i loro dolori.

Pierre Molinier, Autoritratto (1967)

Pierre Molinier, Autoritratto (1967)

Il ragazzo giunge da questa donna che, dopo aver abbandonato il suo villaggio per la città, ha trascorso la propria vita nel tentavo di colmare la sua sete di passione. I due dopo la passione carnale, sulla quale ci soffermeremo, si confidano le loro rispettive storie; soprattutto interiore quella del ragazzo, fatta di incontri e sensazioni quella di lei. Attraverso il racconto della prostituzione della donna, ci si apre uno squarcio anch’esso straordinario. Marie racconta la prima devastante e potente esperienza con il suo primo uomo dagli attributi non proprio gradevoli.

In fondo all’alcova c’era un letto enorme. Mi trascinò gridando; mi sentii sommersa dalle trapunte e dai materassi; il suo corpo pesava su di me, orribile supplizio; le sue labbra molli mi coprirono di freddi baci; il soffitto sulla stanza mi schiacciava. Com’era felice! Com’era estasiato! Cercando di provare piacere a mia volta, eccitavo il suo, così pareva; ma che cosa mi importava del suo piacere! Era il mio che mi serviva, che aspettavo, che cercavo nella sua bocca cava e nelle sue membra deboli e, riunendo con uno sforzo incredibile tutta la lussuria repressa che avevo in me, tutto ciò che ottenni in quella mia prima notte di dissolutezza fu disgusto.

Segue il racconto delle riflessioni maturate in seguito ad altri incontri sessuali: non si tratta di un volgare racconto erotico. La via della prostituzione non è descritta facendo ricorso al registro ironico, né a quello patetico della fanciulla caduta. Marie è la tigre che, cercando per sé il piacere, si da all’altro con tutta la sua forza istintiva ed emotiva; è la donna che allo stesso tempo assorbe la sofferenza emotiva degli uomini che di volta in volta giacciono tra le sue membra.

La donna del romanzo di Flaubert nelle sue avventure non trova nessuno all’altezza della sua passione; costei mette sullo stesso livello il villano e l’aristocratico, l’uomo dall’aspetto più gradevole e quello dalle apparenze meno attraenti.

Né i poveri, né i ricchi, né i belli, né i brutti sono riusciti a saziare l’amore che chiedevo loro di appagare; tutti deboli, privi di forze, concepiti dalla noia, aborti nati da paralitici ubriachi dal vino, che la donna uccide, che temono di morire tra le lenzuola come si muore in guerra, non ce n’è uno che non abbia spossato dopo la prima ora.

Naturalmente non dobbiamo intendere la passione della donna come una pura voglia di soddisfazione carnale. Infatti un cuore infiammato cerca una passione straordinaria, quella che può essere contenuta solo in un’anima straordinaria, in un essere che risiede fuori dalla ‘’barbaria civilizzata’’ della società costituita.

Mi serviva l’amore di un bandito, sulla dura roccia, sotto il sole africano; ho desiderato l’abbraccio dei serpenti e i baci ruggenti dei leoni.

La donna è appunto trascinata da un sentire che ha una potenza virile, selvaggia che non ha bisogno di superficiali vezzeggiamenti.

Vedo chiaramente davanti agli occhi la protagonista fanciulla del nostro romanzo  più nietzschiana di Nietzsche stesso, anzi anticipatrice dello stesso filosofo tedesco, anche nelle metafore sulla malattia, sulla debolezza fisica – spesso da interpretare per non fraintendere certo tipo di pensiero che si esprime in forme radicali – riguardo i suoi amanti che abbiamo citato sopra. Nietzsche ha considerato il crocefisso come il simbolo della sconfitta dei Cristiani, un’icona per ‘’poveri sottomessi’’ alla volontà di dominio dei vari teologi della dottrina cristiana; quest’ultima costruita appunto sulla negazione dei veri istinti di vita e sull’edificazione di bugie aventi come promessa un fantomatico paradiso. Invece la nostra protagonista appare quasi come figlia e madre incestuosa di fronte alla croce. Mi rendo conto che questa retorica da psicanalisti può essere considerata spicciola e forzata, in fondo Marie si trova solamente di fronte ad un manufatto dalla forte somiglianza umana e carico di sensualità: la bambina, a parte qualche nozione appresa dall’(dis)educazione religiosa, non è a conoscenza del peccato che si può commettere fantasticando sull’ortodossia di quella figura che teologicamente incarna il padre e il figlio; inoltre lo spirito (santo) probabilmente oltremodo distante dalla figura storica di Cristo. Marie, probabilmente nella sua ‘’ignoranza del peccato’’, è forse più vicina alla ‘’persona reale’’ di un Cristo – affatto rivoluzionario e più donnaiolo – ricolmo di un sentire interiore, più silenzioso della chiassosa e fustigatrice parola donatagli dai teologi, avvampante di seduzione e non di castrazione del desiderio. Così il crocefisso, che la fanciulla vede nella chiesa, non ‘’funziona’’ come arma castrante contro gli istinti di vita, né come suscitatore di quella compassione che a volte è un uccidere più subdolo.

In chiesa guardavo l’uomo nudo sulla croce, raddrizzavo la sua testa, riempivo i suoi fianchi, coloravo tutte le sue membra, gli sollevavo le palpebre; costruivo davanti a me un uomo bello e dallo sguardo infuocato; lo staccavo dalla croce e lo facevo scendere verso di me; sull’altare, l’incenso lo avvolgeva, avanzava nel fumo, brividi sensuali correvano sulla mia pelle.

Crocefisso in legno attribuito a Michelangelo Buonarrotti (1495 circa)

Crocefisso in legno attribuito a Michelangelo Buonarrotti (1495 circa)

A questo punto abbiamo chiaro il tipo di personalità con la quale il ragazzo si imbatte. In base anche a questo incontro potremo valutare la noia descritta nelle ultime pagine; infatti nel ragazzo, divenuto adulto, resterà una tendenza all’edonismo, comunque quest’attitudine rimarrà inespressa piuttosto che risolversi in volgari trasgressioni da uomini comuni. Inoltre l’estetismo si legherà alla fruizione di opere d’arte e a letture di scarso valore estetico. Questo è un indicatore di come l’autore, nell’ultima parte, ridimensioni il protagonista – Flaubert prende il distacco dal suo personaggio usando la terza persona, così da far apparire la parte precedente come la trascrizione di un manoscritto – dicendo che costui non si è realizzato e che comunque, anche se ci avesse provato, non sarebbe diventato che un uomo insignificante. Allo stesso modo l’uomo non avrebbe avuto lo slancio del vero artista per edificare un’estetica del proprio sentimento. Ecco allora che possiamo amaramente constatare, al di là delle manifestazioni di gusto del protagonista adulto, come certe sofferenze psichiche possano castrare gli esiti significativi di un’anima sensibile. In fondo, nella prima parte del romanzo, Flaubert nonostante la successiva svalutazione del personaggio, si è finto, come dicevamo sopra, di riportare il manoscritto del giovane: un testo scritto in una forma e con dei contenuti notevoli. Probabilmente Flaubert svaluta il suo personaggio in base al risultato delle sue esternazioni, a quell’attrito tra un sentire interiore straordinario e le epifanie mediocri del suo essere nella realtà (come la predilezione per opere di scarso valore, anche se questa scelta di gusto potrebbe rientrare nel tentativo di soffocare il sentire interiore divenuto troppo ingombrante, piuttosto che amplificarlo con la fruizione di opere più maestose e capaci di disseppellire il rimosso).

Nonostante la noia dell’età adulta, il protagonista ha avuto la fortuna di incontrare nella sua fuga di desiderio una sola donna e unica, in una situazione irripetibile. Il tutto con l’intensità di uno di quegli attacchi di panico o di epilessia che nei giorni seguenti tolgono al malato ogni forza di reazione. Marie forse è stata un incontro talmente potente da togliere al giovane la voglia di cercare nuove possibilità di raggiungere simili vette passionali.

La donna ci viene presentata come lo sguardo della madre posato sulla giovinezza del protagonista, ma anche come la potenza della tigre che si inerpica sulle flessuose forme del desiderio. Marie non è la curiosità soddisfatta di un imberbe che scopre le primizie della ragazzina, quella che di li a poco diverrà ‘’la qualunque’’ mogliettina di qualche operoso ometto. Marie è la spigolatrice che prima ha alzato la testa e, vedendo passare le carrozze, ha sognato un altro mondo. Tuttavia il luccichio dei diamanti e i tradimenti non le sono bastati.

Il ragazzo attraverso lo scambio di desiderio con il corpo di questa donna straordinaria, può fare anche l’esperienza dell’antico sentire di costei.

Emanava un profumo più acre e più irritante; la disgrazia che certamente l’aveva colpita la rendeva bella con l’amarezza che la sua bocca conservava, perfino nel sonno, con le due rughe che aveva dietro al collo e che di giorno senza dubbio nascondeva sotto i capelli. A veder, quella donna così triste nella delizia e di cui persino gli abbracci contenevano una gioia lugubre, immaginavo mille passioni terribili che certamente l’avevano percorsa come folgore, a giudicare dalle tracce che ne erano rimaste; di certo mi avrebbe fatto piacere sentire raccontare la sua vita, io che cercavo nell’esistenza umana il lato sonoro e vibrante, il mondo delle grandi passioni e delle lacrime belle.

Nella descrizione della passione dei due amanti – anche se distanti nell’età, cadenzati sulla stessa ritmica del desiderio – si descrive magistralmente un piacere misto a violenza. Anche nelle altre impressioni erotiche evocate da Marie, a prescindere dal ragazzo, viene suscitata la sensazione che la persona con la quale si sta facendo l’amore potrebbe ucciderci, se non in senso stretto, almeno nella possibilità di sottrarci a un’occasione futura di ritrovare quell’ardore così intenso.

Vidi nudo il suo seno e gonfio come di un mormorio temporalesco, il suo ventre di madreperla, dall’ombelico profondo, il suo ventre elastico e convulso, soffice, per affondarvi il viso come su un cuscino di caldo raso; aveva fianchi splendidi, veri fianchi di donna, le cui linee, scendendo su una coscia tonda, ricordano sempre di profilo non so che forma morbida e corrotta di serpe e di demonio; il sudore che le bagnava la pelle la rendeva fresca e appiccicosa; i suoi occhi brillavano nella notte in modo terribile e il bracciale d’ambra che portava al braccio destro tintinnava quando afferrava il rivestimento dell’alcova.

Non si tratta – diciamolo ancora – del ricordo aggraziato della prima volta di un ragazzino o di una ragazzina ‘’normali’’, di uno pseudo-romanticismo patinato – ben vengano pure questi, ma ricordiamoci che certe sensazioni – anche quelle piacevoli – si imprimono, talvolta, con la forza del trauma; nella situazione che stiamo trattando c’è anche profumo di morte. Discostandoci un po’ dal romanzo possiamo fare riferimento a quelle persone che rimangono per tutta la vita segnate dal ‘’doloroso piacere’’ di una violenza; imprigionate nella ragnatela del passato, in una riproposizione mortifera di una narrazione che sottrae il soggetto al presente della vita.

Il romanzo ci ripropone la brama folle di una passione che forse può accadere una sola volta nella vita. Un sentire al quale doniamo tutta la ferocia della nostra passione oppure, cercando di sottrarcene, ne siamo avviluppati in maniera così intensa da provare godimento mentre la nostra anima, nel tentativo di opporre resistenza, viene trascinata. Un precipitare nel vortice di una passione che non ha nulla a che vedere con il romanticismo di fiorellini sbocciati in candidi prati. Ma che invece, come la protagonista, ha quell’odore, quel senso di ancestrale, di antico che ti fa bruciare e dismettere di essere uomo di una gentilezza costruita.

Il protagonista rimane un ragazzo sensibile ma carico di una dolcezza divenuta gonfia fino ad esplodere. La passione amorosa diviene una corsa selvaggia, una lotta per assecondare e fare bruciare il reciproco piacere. Di tutta questa passione ne resterà la cenere, comunque il riflesso abbagliante di quell’intenso fuoco continuerà a sottrarre la mente dal mondo e, spegnendosi il ricordo, finalmente si spegnerà anche il suo portatore insieme alla sua noia.

Meritano menzione anche le considerazioni che sorgono dal dialogo verbale tra i due amanti; in particolare ci piace riflettere sul passo in cui il ragazzo afferma come il sognare con tanta intensità alcune cose sia in un certo modo un precludersi la possibilità viverle.

No, non vedo amore di cui non sarei sazio nel giro di ventiquattro ore, ho tanto sognato il sentimento che mi è venuto a noia, come coloro che sono stati troppo amati.

Effettivamente le indoli introverse, finendo per far convergere tutta la propria energia psichica all’interno, costruiscono mondi in cui tutte le sfumature – anche quelle presenti nel mondo esterno e che di solito non vengono notate – risplendono di luce propria, ossia di quella emanata dal sentimento interiore del soggetto che alimenta il suo immaginario con una ”sostanza” meno effimera di quella reale (escludendo quel sentimento di noia, anch’esso interno, che finisce per inaridire ogni sentire). Nel raccoglimento intimo si fa l’esperienza con il proprio sé liberato da quei compromessi organici cui le persone, in base alla propria indole, accondiscendono con più o meno ritrosia. E’ solo nella propria interiorità che si può ‘’distorcere’’ – anche se il tentativo è quello di ‘’armonizzare’’ – il rapporto con la totalità del proprio essere. Infatti l’unica armonia che possa esistere (anzi che non esiste) è quella che ognuno si costruisce internamente e riferita alle cose che ama in funzione di se stesso.

Interiormente non ci si adatta mai al posto che una divinità o il caso (in base che ci si senta credenti o meno) ci hanno assegnato in vista di un’armonia universale, o a un più o meno complesso funzionamento (o disfunzionamento) di un ordine naturale e universale. Di qui la disperazione lunga quanto la durata di tutta una vita, con annessa la noia di un io portato fuori dalla propria anima e che nel mondo esterno non trova soddisfazione. La disperazione eterna di un essere a cui non è concesso nemmeno di morire, visto che il suo bisogno di esprimersi è legato alla carne, ai fiori, al mare… Alle forme e al tempo inscritti nel mondo esistente; alla materia organica che non si riesce sempre ad accordare a se stessi durante le proprie incursioni nella realtà, almeno senza appoggiarsi alla fantasia trasfiguratrice o all’estasi ascensionale. Al di là di queste disquisizioni esistenzialiste – che servono comunque a chiarire la noia descritta nella parte finale del racconto e forse poco, o nulla, come materia di disquisizione, visto che la maggior parte delle persone ”ordinarie” sembra immune dall’avere sperimentato una disperazione cosciente – prima di concludere questa mia disamina, vorrei soffermarmi ancora sull’incontro tra le due anime passionali, riferendomi al passo in cui viene sottolineato come la straordinarietà di questo incontro sia consistita nel far incontrare due anime affini nel sentire. Cosa straordinaria e a volte possibile anche nella vita reale; forse la sola occasione, non so se chiamarla amore, che sembra offrire una via di uscita alla disperazione; o almeno, l’amore sembra essere l’illusione che ci offre l’inganno più piacevole. La possibilità di un amore che anche nel suo essere effimero ci fornisca dal suo fuoco la cenere per seppellire il resto dei nostri giorni insignificanti. Ma attenzione! Effimero perché può finire presto, non perché condiviso con un fantasma del nostro sentire fatto indossare, di volta in volta, alla prima bella maschera che ci compare di fronte. Mi rendo pure conto del fatto che nella realtà ciò che alimenta l’amore, che lo sostiene nella sua maturazione è qualcosa di più vicino al sentimento dell’amicizia (in alcuni casi anche generatrice di un amore che non parte subito dalla passione), insomma ad una comunanza d’interessi – ma anche forse di disinteressi – da condividere. D’altronde che sia da condividere un sentire interiore puro o una passione come ad esempio l’arte, si ha comunque l’esigenza di far convergere delle sensazioni; in un certo senso si ha un ‘’superamento’’ della prima e urgente passione carnale.

I nostri due protagonisti, nonostante i diversi tragitti esistenziali (vita sensuale trattenuta nel ragazzo e vita sessuale liberata in Marie), nel loro incontro si sono trovati con la stessa verginità interiore, in un preciso momento e luogo della vita. Il ragazzo si è introdotto quasi furtivamente nella casa della donna scorgendola pensierosa, forse prefigurando la sua stessa noia futura.

Senza conoscerci, lei nella sua prostituzione e io nella mia castità, avevamo seguito lo stesso cammino, giungendo allo stesso abisso; mentre io cercavo un’amante, anche lei cercava un’amate, lei nel mondo, io nel mio cuore; l’uno e l’altra ci erano sfuggiti.

Tralasciamo l’analisi dettagliata della parte che precede il passaggio alla terza persona, tra l’altro interessante per il suo carattere onirico – ancora non ci è stata riferita dall’autore l’abitudine all’oppio del protagonista – in cui si crea con la scrittura una sorta di flusso di coscienza innescato su un immaginario romantico dipinto di orientalismo, di viaggi fantastici, di paradisi artificiali che si condensano al ricordo di Marie. Concludiamo invece a partire da un’impressione lucida tratta dalla prima parte del romanzo e che esprime un desiderio di fuga, forse non nella mollezza contemplativa delle allucinazioni ipnagogiche offerte dell’oppio.

La foglia caduta si agita e vola nel vento; allo stesso modo avrei voluto volare io, andarmene, partire per non tornare più, non importa dove, lasciare il mio paese, la mia casa mi pesa sulle spalle: troppe volte sono entrato e uscito dalla stessa porta! Così tante volte ho alzato lo sguardo nello stesso punto sul soffitto della mia camera, che dovrebbe essere consumato.

Un desiderio di partire, di un viaggio come quello che il protagonista, alla fine del racconto, intraprenderà nel tentativo di risollevarsi dalla noia. Una breve visita nei luoghi della sua adolescenza. A questo proposito mi è piaciuto ritrovare in una descrizione del paesaggio invernale di X delle espressioni che descrivono perfettamente certe sonorità di uno dei miei gruppi musicali preferiti, ossia i The Black Heart Procession e i loro paesaggi da post-crisi con in sottofondo lo sbattere di lamiere e il ‘’rumore di catene e singhiozzi’’.

Le barche erano in mare; il molo era deserto; erano tutti chiusi in casa; lunghi pezzi di ghiaccio che i bambini chiamano ‘candele’, pendevano all’estremità dei tetti e in fondo alle grondaie; le insegne del droghiere e dell’albergo stridevano aspramente sulle aste di ferro; la marea saliva, spingendosi in avanti sui ciottoli, con un rumore di catene e singhiozzi.

A chi vorrà leggere il romanzo si offriranno anche le parole che chiudono l’opera; a noi invece piace chiudere questa trattazione con un ritaglio di memoria che il protagonista, nonostante il paesaggio abbandonato e invernale (anche come riflesso del suo animo), riesce ad offrire come risveglio – seppur momentaneo – alla sua esistenza sommersa dalla noia; tutto questo grazie alla visione dei luoghi che hanno un tempo accolto il suo giovane sentire: posti ancora progressivamente trasfigurati in delle sensazioni, questa volta per opera della memoria.

Vide, in un punto, una vecchia barca mezza sepolta nella sabbia, incagliata lì da forse vent’anni; il finocchio marino era cresciuto al suo interno; polipi e mitilli si erano attaccati alle sue tavole inverdite, la toccò in più punti, la guardò in modo singolare, come si guarda un cadavere. A cento passi da lì c’era un piccolo spazio in una gola rocciosa, dove spesso era andato a sedersi e aveva trascorso ore piacevoli a non far nulla: portava con sé un libro e non leggeva, si sistemava lì tutto solo, schiena a terra, per guardare l’azzurro del cielo tra le pareti bianche delle rocce a strapiombo; lì aveva fatto i suoi sogni più dolci, lì aveva sentito meglio le grida dei gabbiani e le alghe sospese avevano scosso su di lui le perle della loro chioma; da lì aveva visto la vela dei vascelli sparire dietro l’orizzonte e lì, il sole era stato più caldo che in tutti gli altri luoghi della terra.

Come all’inizio sensazioni interiori; esse, anche se contrastanti con lo sfocio della vita nella noia, si possono combinare lo stesso con l’esistenza del protagonista, per renderci quasi l’immagine maestosa del volo sull’oceano di un albatros (le sensazioni interiori del protagonista) e della goffaggine dello stesso uccello a contatto con la terra (la realtà dell’esistenza del protagonista fuori dalla fantasia e dal sogno) nel tentativo di scuotere le sue grandi ali e volare nuovamente. Ancora, per me, un collegamento a un altro dei miei gruppi preferiti, gli Interpol, e ad una loro canzone dedicata ad anime che hanno scorto l’amore inseguendolo alla ‘’velocità della luce’’ ma che allo stesso tempo sono inclini a ‘’tutta la distruzione che c’è nell’uomo’’ e nella sua mano: Pace is the trick. Probabilmente ritornerò sul gruppo e su questa canzone, per il momento vi propongo il video magnifico del brano, girato non so da chi. In fondo non siamo fuori tema nel riconoscere anche in questa canzone persone dai bisogni insaziabili come Marie e il ragazzo del romanzo:

The angels remark outside, you are known for insatiable needs (Gli angeli osservano da fuori, sei riconosciuto per i bisogni insaziabili che hai).

E dopo i versi della canzone degli Interpol, ecco finalmente la musica e le immagini; ulteriore dimostrazione di come certa letteratura, anche se concepita nell’Ottocento, trovi perfettamente delle consonanze nei suoni e nei versi di certa contemporaneità:


Renzo Demasi

La vita di Adele – Capitoli 1 & 2 (fr. La Vie d’Adèle – Chapitres 1 & 2) – Abdellatif Kechiche, Francia 2013

La vita di Adele ha tutti quegli elementi che io amo nel cinema: tematica adolescenziale, contenuto forte e non messo in secondo piano dalla tecnica, sospensione di un giudizio morale borghese o ‘’modaiolo’’, realismo, finale aperto ecc. E’ proprio uno di quei film che riesce a mantenersi nella realtà, senza divenire banale, e allo stesso tempo a scandagliare le sottigliezze del sentimento. Di film che riescono ad indagare l’innocenza ma anche la malizia (positiva), la curiosità dell’adolescenza non ce ne sono molti; Kechiche fa leva soprattutto su quel sentirsi diversi nell’adolescenza che non significa omosessualità, almeno non solo quella, come cercherò di far capire. Non è facile far percepire intensamente quel bisogno di essere colmati, lo stupore e la paura verso le cose; insomma quel sentire proprio di un’indole sensibile che si affaccia alla vita. Si tratta di un contrasto con l’ambiente circostante avvertito da taluni adolescenti che hanno una maturità mentale più avanzata rispetto a quella biologica; un tipo di pensiero-sentire appunto dissonante rispetto a quello dei coetanei.

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Nel film l’omosessualità non è descritta secondo i cliché ormai stereotipati e superficiali che di solito ci vengono proposti dai vari media; certo nella pellicola sono mostrati anche quelli ma se ne prende il distacco. Mi pare che l’omosessualità sia trattata – a prescindere dall’essere gay o meno – come un particolare sentire dell’essere. Un sentire vibrante che la macchina da presa registra perfettamente nei volti, anche quando ingoiano bocconi in modo invitante; nelle micro espressioni fisiognomiche dei piccoli ma significativi movimenti di lembi di viso: quasi dei luccichii di emozione e sensibilità.

Uno dei primi incontri con la ragazza che frequenta l’accademia delle belle arti, non ha bisogno di artifici cinematografici iperrealistici o innaturali per registrare l’emozione di Adele: le due ragazze prima si incrociano, senza nessun tremolio o rumore di sottofondo amplificato, successivamente vediamo l”’imbambolamento” nel traffico da parte di Adele.

Nel film vengono descritti bene i vari tipi di emozione e di reazione di Adele. La simpatia della ragazza nei confronti del suo primo ragazzo, che è appunto simpatico, spontaneo ma non maturo a quel tipo di sentimento di cui vorrebbe essere colmata Adele. E forse – seppur buono e bello – il ragazzo si fermerà a quel tipo di maturazione alla quale in genere si fermano la maggior parte degli uomini e che d’altronde sembra adattarsi bene alla maggior parte delle ragazze (carino, ancora meglio che non sia violento: ”mi basta così!”). Lo scoppio di pianto di Adele, dopo l’esperienza deludente con il ragazzo, è trattato molto bene, visto che non è riferito alla specifica situazione ma è uno sfogo di quell’emozione trattenuta nei confronti della ragazza con i capelli blu. E ancora questo pianto sarà declinato successivamente – quando Adele verrà scacciata da Emma – come il velo che scopre il tradimento ma anche come il pianto della bambina abbandonata.

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Nel film si vedono anche dei bambini – la stessa Adele è la bambina dalle lacrime facili e alla quale altrettanto facilmente cola il naso nell’emozionarsi. Il voler fare la pedagoga contrasta con le aspirazioni artistiche di Emma, ma ognuno ha la propria vocazione. Pure Emma – che alle compagne di Adele pettegole, pregiudiziose e violente (magari per nascondere un’omosessualità latente) appare come un ragazzaccio – è trattata bene nelle sue molteplici sfaccettature; Adele, nonostante le sue compagne, la segue spontaneamente. In fondo Emma, pur rappresentando la parte maschile della relazione, ha l’animo femminile che desidera avere dei bambini, che si incanta di fronte all’adolescenza tenera di Adele. I loro primi incontri non sono un tuffarsi nel succo di un frutto già maturo, infatti il sesso verrà dopo. Prima Adele, sotto gli sguardi di Emma, matura delicatamente (ma mai del tutto) in quel giardino d’autunno e in quel prato in cui le due ragazze stanno insieme. E maturazione significherà per Adele – sdraiata sul prato con lo sguardo rivolto alle pelle di Emma e al cielo – anche rendersi conto di essere felice in quel momento.

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Il film non esplora (solo) la psiche omosessuale, infatti quel tipo di sentire può essere comune ad entrambi i sessi e a prescindere dall’orientamento sessuale. Forse Emma diverrà più maschile nell’ambizione professionale, anche se prima cercava di invogliare Adele verso sbocchi meno pratici di quelli del ‘’fare la pedagoga’’. Ancora Emma sarà più maschile nello scegliere alla fine la donna madre, ma conserverà il sentimento di tenerezza materna verso Adele.

Il sesso è trattato in modo significativo e una delle frasi chiavi del film è quella pronunciata dal ragazzo – nel locale gay – che dice ad Adele che ‘’l’amore non ha sesso’’. La vita di Adele non è uno di quei film che ha bisogno di spiattellarti una scena di sesso per farti aumentare il battito cardiaco momentaneamente e lasciandoti poi insoddisfatto; o, come in certi casi, il sesso non è uno stratagemma per sopperire all’incapacità di suscitare un’emozione autentica, non artefatta. Insomma il sesso non è impiegato come una furberia fisiologica per eccitare il sentimento. Nonostante ciò La vita di Adele mostra lunghe scene di sesso senza nascondere nulla, ma allo stesso tempo gli spezzoni non sono pornografici. In fondo il sesso continua ad essere il prolungamento di quell’emozione che si instaura a prescindere tra le due ragazze, di quella ”confusività” e di quell’appagamento in cui Adele si fa sprofondare nei confronti di Emma. In questo senso è significativa la scena all’interno del locale delle lesbiche: l’incontro tra le due ragazze non si riduce a un mero approccio tra omosessuali, ci viene invece mostrato il meccanismo di idealizzazione dell’altro che si verifica talvolta nell’adolescenza, a prescindere che si tratti di un confronto con qualcuno del nostro stesso sesso o meno. Adele si sta perdendo in Emma – magari anche a noi è capitata la stessa situazione quando eravamo adolescenti – finché l’incanto non viene rotto dall’avvento del lato frivolo delle amiche di Emma. Anch’esse rappresentano il diverso, ma un altro tipo di diversità da quella che cerca Adele. Ci si rende conto di ciò anche dal fatto che Adele accetta la sua omosessualità, ma pur partecipando ad una parata gay non si trova completamente a suo agio con quel tipo di ostentazione. Inoltre, il rifiuto di un certo tipo di esibizionismo lo si nota anche quando Adele declina le proposte di Emma riguardo al ”professionalizzare” le sue emozione espresse tramite la scrittura. Quindi il film non tratta delle tematiche propriamente omosessuali ma in generale umane. E’ lontano da quel tipo di orgoglio gay che per uscire dalla ghettizzazione si formalizza in un’ostentazione superficiale e frivola – forse spesso in contrasto con una certa sensibilità anche propriamente gay.

Ritornando alle scene di sesso, a mio parere, sono trattate bene anche grazie all’eliminazione dell’elemento maschile, di una certa connotazione dell’elemento maschile (”membro”), che come da stereotipo dovrebbe essere un datore di ”sesso sbrigativo” o, ancora come da altro stereotipo, rischiare di cadere nel sentimentalismo delle effusioni amorose. In La vita di Adele il sesso, pur essendo un’emozione, non viene idealizzato eccessivamente e anche se mostrato non diviene sporco. Inoltre, come dicevo sopra, le scene non danno quell’insoddisfazione tipica del voyerismo. I corpi sono veri, vicini e lo si sente dai respiri, lo si vede dalle vibrazioni orgasmiche. Le scene di sesso, allo stesso tempo mistiche e passionali, si concludono – anzi si acquietano con naturalità – come se fossero poggiate su quel giardino d’autunno delle scene precedenti. Dunque non lasciano insoddisfatti, come se l’incantesimo dovesse sparire insieme all’orgasmo.

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Altra cosa significativa mi pare la misticità di Adele nel donarsi completamente ad Emma, sia nelle pose artistiche, sia nel sesso. Spesso nel rapporto sessuale uomo-donna, al maschio manca il saper assecondare la misticità della compagna – anche se ora l’eccessiva mascolinizzazione di certe donzelle sta sovvertendo il tutto. Nel senso che di solito (ma non necessariamente) l’uomo deve essere sì potenza che fa esplodere ”il fare l’amore”, ma il piacere femminile – meno limitato fisiologicamente – tende ad avere una maggiore propensione verso l’infinito. Quindi la mentalità maschile stereotipata è come se lanciasse la donna in un volo ma poi, terminato l’orgasmo, la lasciasse da sola in quell’infinito o la facesse crollare di nuovo nel mondo, senza offrirle ancora delle ali o un abbraccio su cui posare – riconosco che nel cercare di descrivere questo ultimo punto di vista posso essere facilmente contraddetto, infatti non ho a mia disposizione l’arte della macchina da presa di Kechiche né tanto meno sto cercando di abbozzare i personaggi di un romanzo; ergo solo la visione del film può rendere conto di questa prospettiva che mi sembra essere stata assunta dal regista, specificatamente al tema trattato. Sorvolando su queste osservazioni, la pellicola va al di là dell’essere gay o meno, non è settaria e ci si può riconoscere a prescindere dalla propria collocazione di genere.

Anche il penultimo incontro tra le due ragazze – nel bar – è significativo perché rivela un certo lato dell’indole di Emma, quello che la porta a cercare lo stupore dell’adolescenza nella fanciulla Adele. Tuttavia, allo stesso tempo la scelta di Emma è ormai indirizzata verso qualcosa di diverso da quell’amore sbocciato mentre cadevano le foglie nel giardino di autunno. Ora il loro ultimo toccarsi è solo sensualità carnale e in Emma di tutte le sfaccettature del sentimento forse è rimasta solo la tenerezza.
Bello il finale aperto che, nonostante le direzioni opposte dei due personaggi (Adele e l’arabo), forse lascia aperta una possibilità alla speranza di ritrovarsi.
Renzo Demasi

Appunti su ”Orfeo Negro” (pt. Orfeo Negru, fr. Orphée Noir) – Marcel Camus, Francia-Italia-Brasile 1959


Sono di nuovo con te, Euridice; Il mio cuore è come un passero dissetato da una goccia di rugiada. Ti ringrazio, Euridice, ti ringrazio per questo nuovo giorno. Ora sei tu che mi conduci: io sono fra le tue braccia come un bambino che dorme. Quant’è dolce ascoltare il tuo respiro! So che tu mi condurrai dove devo andare. […] Ti ringrazio, Euridice: la strada che tu hai scelto è coperta di fiori. Il sole si leverà per accoglierci, amore… Canta, Euridice!

Circolarità spesso è un termine utilizzato quando si parla di narrazione, di mitologia ecc. Fa parte di un riproposto gruppo di parole con le quali si cerca di sedurre sempre alla stessa maniera l’ascoltatore/lettore. Termini che suonano significativi ma allo stesso tempo insignificanti quando non sostenuti da un’anima. Quest’ultima, almeno per quanto riguarda il film, intesa quasi come soffio divino, emanato da un corpo vibrante e che fa movere un altro corpo. Una sorta di melodia che ci colloca in una sospensione tra felicità e tristezza.

Tutto il film di Camus, appunto, è circolare e anche sospeso tra cielo e terra.

Euridice, scappata da un persecutore, giunge per mare a Rio: la sua nascita dalle acque è all’insegna della paura, quando all’improvviso vede l’uomo cieco – prima sua guida – che tuttavia conosce Rio. La città è nel periodo del carnevale e in Euridice non fa che aumentare la sensazione dello smarrimento. Presentimento di ostilità al primo incontro con Mira e nuovo riorientamento con l’altro angelo messaggero (Ermes).

Le percussioni caraibiche e in genere la musica fanno parte della fisiologia che anima Rio e anche i suoi abitanti. E così nel film, a volte, gli attori interagiscono con movenze coreutiche. Tuttavia, Euridice  inizierà a danzare solo ascoltando il vento melodico di Orfeo.

Le parole della canzone, con la quale si dice che Orfeo riesca a far sorgere il sole, sono sempre le stesse; tuttavia la brezza mossa inconsapevolmente dall’avvento in città della spaurita campagnola, ha ispirato una nuova melodia nel cuore di Orfeo. Il ferroviere prova, come al solito, a recitare le solite parole del seduttore anche con Euridice, ma ormai la ragazza ha sentito una melodia nuova, o forse è quel misto di tristezza, amore e paura che lei conteneva nel suo cuore ad essersi fatto musica. Lo stesso sentimento si trasmette nell’animo di Orfeo, ancor prima che costui senta Euridice bruciare nel suo stesso cuore. Il cantore ferroviere così matura all’amore velato di malinconia, sospeso tra cielo e terra come l’altura dove, nella casa della cugina Serafina, viene ospitata la fuggiasca Euridice.

L’altura sopra Rio è piena di presagi di vita: l’aquilone che vola in alto, l’amuleto donato dal ragazzo ad Euridice come portafortuna ecc. Vi sono anche presagi di morte: l’aquilone che si spezza e cade, l’aereo che in uno dei momenti poetici dell’amore vola in alto, verso sinistra dell’inquadratura, quasi a preannunciare una morte sublime.

Secondo le leggi naturali, Il sole deve spuntare per donare la vita. Orfeo con la sua musica prima acquieta la curiosità dei due ragazzini e rende ancora più mansueti gli animali domestici; successivamente, le note compiono il loro vero miracolo illuminando di luce il levigato e malinconico ebano del viso di Euridice, in ascolto nella stanza accanto. Così ogni tensione emotiva viene liberata nella scena dietro la casa: l’immagine di Orfeo inginocchiato accanto ad Euridice preannuncia visivamente la metafora finale del passero che si abbevera di rugiada. La ragazza diventa il sole sorto e le sue lacrime sono la rugiada che commuove e abbevera d’amore Orfeo. Siamo di fronte a un riconoscersi nella tristezza ma anche nella felicità. Allo stesso modo sublime la scena del risveglio, dopo la notte d’amore che ha acquietato le anime appena ritrovate.

orfeo e euridice

Anche Orfeo, come dicevamo sopra, è il sole appunto perché illumina il volto di Euridice. La ragazza,  a sua volta, condensa in se diversi sentimenti: la vera notte (la tristezza), infatti la cugina Serafina che nelle danza dovrebbe rappresentare la notte, in realtà è allegra e spensierata insieme al suo amore, un marinaio smemorato; allo stesso tempo Euridice è il giorno (vita, speranza), che nella danza dovrebbe essere rappresentato da Mira, la quale non è altro che il doppio femminile dell’uomo mascherato di morte che insegue Euridice. La fuggiasca è la luce che dona ad Orfeo la memoria, l’ansia del ritrovare, come se fosse per la prima volta, quell’amore che da sempre è esistito e aspettava di essere riscoperto.

Tante simmetrie e circolarità apparirebbero didascaliche se tali caratteristiche non fossero precipue della natura del mito, se non fossero sorrette da quella melodia che soffia dagli strati più profondi dell’animo. Un sentire che è una certezza come la fede, che non ha bisogno di sperimentare per credere: bugia quella dei teologi, realtà intima il sentimento amoroso. Un sentire e un riconoscersi che non può essere registrato nelle carte accatastate in cui si annotano le scomparse (o forse i traghettamenti nell’aldilà): un catasto della dimenticanza. Un sentire a cui non basta il trasporto di un rito: Orfeo scende nell’Ade tribale e non si accontenta del riflesso della voce di Euridice su di un corpo invasato. Un sentire che ancor prima non si è fatto vincere dalla vista nell’ospedale della degenerazione della festa (il viso di una donna ferita). Un sentimento che invece è la fede cieca nel messaggio portato da Ermes ad Orfeo da parte di Euridice: costei vuole essere sottratta dalla morte laica dell’obitorio. Il ferroviere musicista così può abbandonare il luogo di morte con la sua amata tra le braccia: la porta si chiude sulla camera mortuaria, alle loro spalle, come se i due amanti volessero sottrarsi alla morte che vorrebbe accomunarli anonimamente agli altri cadaveri.

Afterlife, oh my God, what an awful word
After all the breath and the dirt
And the fires that burn
And after all this time
And after all the ambulances go
And after all the hangers-on are done
Hanging on to the dead lights
Of the afterglow

[…]

But you say
Oh, when love is gone
Where does it go?
And you say
Oh, when love is gone
Where does it go?
And where do we go?
Where do we go?
Where do we go?
Where do we go?
Where do we go?
Where do we go?
Where do we go?
Where do we go?

 Il destino deve comunque compiersi e mentre Orfeo risale l’altura con Euridice tra le braccia, nel senso opposto alla sua direzione e più in alto nell’inquadratura – fuori dal film, verso una dimensione altra – i fili elettrici attraversati da un uccello procedono verso il cielo.

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Mira (trasposizione di una Baccante del mito greco) farà compiere il destino ultimo: Orfeo ed Euridice precipiteranno nel precipizio accolti da una vegetazione verde. Il film si avvia alla conclusione con i due ragazzini: il successore di Orfeo incoraggiato dalla fiducia datagli dall’altro ragazzo (forse un giovane Ermes) che la sua musica farà spuntare il sole. E così infatti avverrà che quel sole sorgendo illuminerà e farà venire avanti la nuova piccola Euridice che prima era stata relegata alle spalle. Il sole nascente non ci mostrerà nessuna lacrima sullo schermo, la sentiremo scorrere invece, quasi in un scoppio intrattenibile, dai nostri occhi che riconoscono e si commuovono all’eterno ritorno dell’amore.
Renzo Demasi

Eugénie Grandet – Honoré de Balzac, Francia 1833

Eugenie grandet

Ci sono donne che, abbandonate, corrono a strappare l’amante dalle braccia della rivale, uccidono questa e fuggono in capo al mondo, finiscono sul patibolo e nella tomba. Bello, non c’è dubbio: il movente di un delitto del genere è una passione sublime di fronte alla quale la giustizia umana tace. Altre chinano il capo e soffrono in silenzio; con la morte nel cuore, rassegnate, piangono e perdonano. E’ questo è amore, amore vero, amore angelico, amore che vive e muore del suo dolore.

A proposito dell’autore leggevo nell’introduzione di H. James come sia notevole la sua capacità di vivificare la rappresentazione, di entrare nella complessità dei sentimenti e del vissuto, senza appoggiarsi a un predeterminato schema o all’ispirazione lirica che può facilmente venire meno, allo stesso modo in cui quet’ultima ha fatto elevare determinate pagine. Inoltre la capacità di Balzac di entrare fino in fondo nel corridoio dell’immaginazione, senza mai dismettere il suo sforzo intellettuale, dunque senza trovare quei punti ciechi che interrompono il flusso immaginativo.
Anche l’amore come la scrittura richiede dedizione: entrambe producono una rappresentazione di ciò che non esiste e solo la perseveranza – a prescindere dal compromesso e dalla contaminazione mondana – può consentire la fedeltà a quell’ardore o a quell’ingenuità iniziale. Quel primo momento generativo del sentimento che (spesso) non partorisce realtà ma ci cattura in una particolare atmosfera dalla quale possiamo osservare tutto ‘’amorosamente’’. Ci è concesso di colorare attraverso una luce che non esiste – quella della nostra anima – la materia organica dell’universo. Ciò accade ad Eugénie innamorandosi del cugino Charles.
Nel romanzo scorrono due linee parallele, quella del compromesso con la vita e con gli affari di quet’ultima e quella del sentimento interiore (quella di Eugénie). La prima è mutevole e richiede flessibilità, la seconda invece è una sorta di santuario che richiede dedizione e fedeltà. Charles sacrificherà la seconda al compromesso, invece Eugénie, pur non esimendosi da ciò che la società e il ‘’fardello’’ dei suoi averi materiali richiedono, non rimodellerà la sua anima insieme al suo destino esteriore. O meglio costei – anima romantica – proverà lo struggimento e la delusione matura che nasce dalla constatazione che quella luce interiore è troppo fioca o troppo abbagliante per essere colta dalla dimensione finita del reale. Così Eugénie, ”con la morte nel cuore”, continuerà ad ‘’amministrare’’ la sua esistenza esteriore, in quella stessa casa della provincia francese in cui ci era stata presentata all’inizio del romanzo:

Esistono in talune città di provincia case la cui vista suscita una malinconia simile a quella che provocano i più cupi chiostri, le più squallide lande, le più tristi rovine. E forse in queste case ci sono insieme il silenzio dei chiostri, l’aridità delle lande, l’ossame delle rovine. Così sommessi vi sono la vita e il movimento che un estraneo le crederebbe disabitate se non gli accadesse d’un tratto di incrociare lo sguardo morto e freddo di un essere immobile, il cui volto quasi monacale si sporge dalla finestra al rumore di un passo sconosciuto.

Renzo Demasi